Trovare la "normalità" in un campo di accoglienza
"...Sono persone che si portano dietro guerre, vissuti difficili fatti di sofferenza..."
(l'esperienza di Isabella, Martina, Linda, Davide, Samuele, Giuseppe)
Conosciamo Isabella, Martina, Linda, Davide, Samuele, Giuseppe: 5 dei 6 giovani coinvolti in “Hospitality”, progetto promosso da Punto D’Approdo in collaborazione con Fondazione Famiglia Materna di Rovereto.
Il progetto, vedendo i giovani in servizio dislocati su più sedi (il Campo di prima accoglienza a Marco, la Struttura di accoglienza “Quercia” di Rovereto e le due sedi del Cinformi di Trento e Rovereto), prevede come minimo comun denominatore l’accoglienza dei profughi. Tale accoglienza si articola in modo differente nelle varie sedi di attuazione del progetto: dalla gestione degli arrivi, al rifornimento dei beni di prima necessità e agli alloggi, dall’apprendimento della lingua italiana, all’organizzazione di attività educativo-ricreative-culturali, dalla socializzazione al lavoro e/o tirocini alla promozione di iniziative di volontariato.
Un giovane in servizio sottolinea da subito come all’interno di questo mondo si aggirino visioni e immaginari spesso stereotipizzati: “Prima di iniziare il percorso di servizio civile, non ero informato sul fatto che queste persone stavano aspettando i documenti con cui iniziare un tirocinio o a lavorare…spesso i tempi burocratici sono lunghi e sono costretti ad aspettare”.I ragazzi in servizio lavorano, ognuno con ruoli e mansioni differenti, con persone in attesa: in attesa di regolarizzarsi, di integrarsi, di opportunità di lavoro, di studio. In poche parole: in attesa di una possibilità.
Assistere materialmente e psicologicamente tali persone durante questa attesa, è un lavoro decisamente complesso e delicato, non solo perché si ha a che fare con persone “mobili”, in partenza e in arrivo, provenienti dai più svariati contesti culturali e linguistici, ma anche perché richiede di immergersi a picco dentro le loro fragilità: “Sono persone che sono arrivate con i barconi o attraverso la via balcanica e si portano dietro guerre, vissuti difficili fatti di sofferenza…Molti chiedono di essere ascoltati e per questo sto imparando ad ascoltare le loro storie”. Un ascolto che tuttavia va altrettanto accompagnato, da chi vi lavora, da un certo distacco emotivo: “Sto cercando di svolgere il mio ruolo di operatore, imparando però a limitare il coinvolgimento emotivo”.
In effetti, una delle ragazze in servizio, ci rivela una grande verità per chi opera in contesti di prima assistenza: “Credo che la cosa più importante sia vivere tutto questo come il più possibile normale. ‘Normalizzare’ la quotidianità è fondamentale perché altrimenti si appesantisce il lavoro a livello emotivo e se ne rimane sopraffatti”. L’obiettivo è creare per l’utenza, ma anche per se stessi in quanto operatori, un contesto di vita il più possibile ordinario, scandendo tempi, organizzando attività, predisponendo i processi amministrativi necessari, creando regolarità e abitudini: è, infatti, ripartendo dalle più concrete ed elementari attività quotidiane che si può garantire loro la possibilità di ricominciare, a piccoli passi e in autonomia, nella ricostruzione del proprio percorso di vita.
A cura di S. Michelini